Art 2094 cc : Cosa significa lavoro subordinato?

COPERTINA ART 2094 CC

Art 2094 cc : Cosa significa lavoro subordinato?

 

Art 2094 cc (Prestatore di lavoro subordinato)

E’ prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore.

 

La nozione di lavoro subordinato è stata, nel nostro ordinamento giuridico, consolidata in una disposizione legale.

La prima tipizzazione aveva riguardato la categoria degli impiegati.

Successivamente il processo di tipizzazione fu poi completato dal codice civile.

La norma che si occupa del lavoro subordinato è l’art 2094 cc. Questa norma dice che “È prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore.” La norma che, invece, definisce il lavoro autonomo è l’art 2222 cc. Questa norma dice che “Quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo capo, salvo che il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro IV.“.

Nonostante la presenza di queste due norme, operare una distinzione tra la fattispecie del lavoro subordinato e quella del lavoro autonomo non è così facile come sembra.

La definizione contenuta nell’art 2094 cc, infatti, contiene 4 caratteri qualificatori, tuttavia il problema risiede proprio nella portata degli stessi. In altre parole, il quesito che si pone l’interprete è il seguente: i quattro caratteri desumibili dalla definizione contenuta nell’art 2094 cc sono sufficienti (tutti insieme o anche singolarmente considerati) a distinguere la fattispecie di lavoro autonomo da quella di lavoro subordinato?

Per rispondere, analizziamoli singolarmente:

partendo dalla retribuzione si nota, subito, come tale termine sia utilizzato dall’art 2094 cc e, invece, non sia utilizzato dall’art 2222 cc (che al suo posto utilizza “corrispettivo”). In realtà tale differenza non è rilevante in quanto, pur se denominato in modo differente, in entrambe le fattispecie contrattuali è previsto un compenso a fronte della prestazione lavorativa effettuata.

Riguardo alla collaborazione, poi, il discorso è il medesimo. Collaborare, infatti, significa semplicemente “lavorare insieme”. Da ciò si deduce quindi come il termine collaborazione richiami un dato meramente organizzativo (è verosimile, infatti, che un lavoratore presti il proprio lavoro collaborando con altri lavoratori – i colleghi – o, altresì, direttamente con il datore di lavoro). La collaborazione, tuttavia, può essere presente anche nel lavoro autonomo. Per tale ragione, nemmeno questo “carattere” può essere considerato come essenziale al fine di rispondere alla domanda.

Il terzo elemento caratterizzante è l’eterodirezione. Questo termine richiama il concetto di “ordini direttivi impartiti”. In realtà, da sempre, sono state sollevate obiezioni riguardo a questo elemento. Infatti, nonostante sia certamente vero che il datore di lavoro ha la possibilità di impartire degli ordini/indicazioni ai propri lavoratori al fine di far loro svolgere correttamente il lavoro, è pur vero che, sempre nell’ambito dei rapporti di lavoro subordinato, questo NON sempre accade. Ad esempio i dirigenti, gli insegnanti, gli operatori di pulizie, ecc sono tutti lavoratori subordinati che tuttavia, anche se per ragioni diverse, conservano una certa autonomia nell’espletamento del proprio lavoro.

Nonostante ciò, la giurisprudenza dominante (e parte della dottrina) continuano a considerare l’eterodirezione come il carattere essenziale per distinguere il lavoro subordinato dal lavoro autonomo.

L’ultimo elemento caratterizzante è la dipendenza. Questo elemento è molto importante e non va confuso (come sembra che faccia la giurisprudenza) con il concetto di eterodirezione. Se, infatti, il legislatore avesse voluto considerarli come sinonimi non avrebbe utilizzato l’espressione “alle dipendenze e sotto la direzione del datore di lavoro”.

La corte costituzionale, proprio su questo punto, si è espressa con la sentenza n.30 del 5 febbraio 1996 sottolineando, da un lato, come i due concetti siano differenti e, dall’altro, come proprio il concetto di “dipendenza” sia quello che, tra i quattro indicati dall’art 2094 cc, consente di distinguere il lavoro subordinato dal lavoro autonomo.

In sintesi, il pensiero della corte costituzionale è il seguente:

il lavoro subordinato è un rapporto economico-sociale caratterizzato da subordinazione in senso stretto. Il concetto di subordinazione in senso stretto coincide con quello di “lavoro alle dipendenze” (espresso nell’art 2094 cc) che, a sua volta, coincide con una condizione di doppia alienità del lavoratore:

1)la sua prestazione lavorativa è destinata a svolgersi nel contesto di un’organizzazione produttiva altrui

2)la sua prestazione lavorativa è svolta in vista di un risultato di cui il titolare dell’organizzazione (e dei mezzi di produzione) è immediatamente legittimato ad appropriarsi.

In altri termini, l’elemento di qualificazione del tipo contrattuale va identificato nella dipendenza (da intendersi caratterizzata da quella condizione di doppia alienità) e NON dall’eterodirezione che meriterebbe, invece, di essere collocata più propriamente sul piano degli effetti conseguenti ad una qualificazione già operata

…e per il lavoro parasubordinato?

Con il termine lavoro parasubordinato ci si riferisce ad un concetto di prestazione lavorativa intermedio tra lavoro subordinato e lavoro autonomo (in quanto presenta caratteristiche afferenti ad entrambi i tipi di prestazioni lavorative).

L’esempio più tipico di lavoro parasubordinato è quello del contratto di agenzia. L’art 409 n. 3 cpc, infatti, afferma che il rito del lavoro si applica, oltre alle controversie riguardante rapporti di lavoro subordinato, anche a quelle riguardanti contratti di agenzia, rappresentanza commerciale ed ogni altra prestazione di opera di carattere prevalentemente personale, continuativa, coordinata anche se non a carattere subordinato.

Analizziamo i seguenti termini:

continuità: con esso ci si riferisce ad un rapporto di lavoro perdurante nel tempo

personale: con esso ci si riferisce ad un rapporto di lavoro nel quale la prestazione lavorativa sia svolta da persone fisiche.

Coordinata: con esso ci si riferisce:

-nei rapporti di lavoro subordinato → ad una prestazione lavorativa strumentale all’organizzazione del committente

-nei rapporti di lavoro parasubordinato → ad una prestazione lavorativa finalizzata ad inserirsi nell’organizzazione del committente (mancando, tuttavia, la subordinazione).

Nella discussione giuslavoristica si è cercato di far luce sulla natura del lavoro parasubordinato (inquadrabile nel generico concetto di “prestazione di collaborazione continuativa”). Prima del 2003 (anno in cui venne introdotta la figura del contratto a progetto) si era tentato di ricondurlo ad un tertium genus (rispetto al lavoro subordinato e a quello autonomo).

Il lavoro coordinato, tuttavia, ha rappresentato più che altro una zona grigia alla quale erano astrattamente riconducibili tante prestazioni lavorative diverse (per il solo fatto che in esse si scorgesse la presenza di una collaborazione continuativa).

Fu così che nel 2003 venne introdotto il contratto a progetto. L’intento del legislatore non era soltanto quello di “dare un nome” ai rapporti di collaborazione continuativa (c.d. co.co.co.) ma, soprattutto, quello di ricondurre una volta per tutte le prestazioni di carattere continuativo alla figura di contratto a progetto. Perché? Perché, secondo il legislatore, ogni prestazione lavorativa prevalentemente personale, continuativa e che si inseriva nell’organizzazione di un terzo soggetto (committente) doveva essere ricondotta ad un progetto, o parte di esso, voluto dal committente.

In un tale tipo di prestazione, cmq, il lavoratore NON era soggetto all’organizzazione del committente conservando, invece, autonomia organizzativa. Per tale ragione il contratto a progetto non fu considerato come un “tertium genus” ma, invece, venne considerato affine al lavoro autonomo.

Essendo, come detto, il contratto a progetto la forma di lavoro parasubordinato prevista dal legislatore a far data dal 2003, questa non fu cmq completamente assimilabile al lavoro autonomo. Essa, infatti, prevedeva da un lato delle tutele assimilabili (almeno formalmente) al lavoro subordinato (l’applicazione del rito del lavoro, la maternità, la malattia, la tutela per gli infortuni) e, dall’altro, una serie risicata di diritti inseriti nello stesso contratto (previsione del tempo e modalità del pagamento del corrispettivo – parametrato ai risultati raggiunti e, cmq, non inferiore a quello stabilito dalla contrattazione collettiva; sospensione del lavoro in caso di malattia, infortunio, maternità – in tal caso, però, SENZA obbligare il committente all’esborso di oneri economici).

Fu scelta, in altre parole, la tecnica dell’estensione parziale di alcuni caratteri del lavoro subordinato a quello a progetto.

In ogni caso, il legislatore del 2003 sembrava aver predisposto una sorta di presunzione legale assoluta in caso di mancata osservanza – da parte del datore di lavoro – dell’obbligo di regolare la collaborazione continuativa del lavoratore mediante il contratto a progetto. Qualora, infatti, il datore di lavoro non avesse rispettato tale obbligo costui sarebbe incorso nella seguente conseguenza sanzionatoria: la riconduzione del rapporto di lavoro del proprio/propri collaboratori alla figura del lavoro subordinato a tempo indeterminato (la pronuncia del giudice in tale senso, in questo caso, aveva semplice carattere di accertamento – posto che tale trasformazione avveniva ipso iure per il solo fatto che il datore di lavoro non avesse rispettata quanto stabilito dal legislatore).

Con il dlgs 81/2015 è stato abrogato il contratto a progetto e, di coseguenza, si è tornati (almeno per la maggior parte della co.co.co.) alla situazione pre riforma del 2003. Tolte, infatti, alcune co.co.co. Che possedendo i requisiti previsti da tale dlg (prestazione lavorativa esclusivamente personale, continuativa e nella quale le modalità di esecuzione del lavoro sono organizzate dal committente anche in riferimento ai tempi e luogo del lavoro) per le quali il dlg 81/2015 ha stabilito, a far data dal 1 gennaio 2016) l’automatica trasformazione in rapporti di lavoro subordinato – facendo leva, in tal caso, sul requisito della etero-ORGANIZZAZIONE, per tante altre si è, come detto, di fatto tornati alla situazione pre riforma del 2003 con la conseguenza che molte di esse sono tornate a non essere qualificabili né come lavoro subordinato né come lavoro autonomo. In altre parole, priva di effettiva tutela.

..qual è la fonte del rapporto di lavoro?

la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro è riconducibile a quella contrattuale. La concezione contrattuale, infatti, ponendosi in netto contrasto con la concezione acontrattuale (v. pag 125 per le varie teorie) è uscita “vincitrice dal conflitto” dimostrando come, nella realtà dei fatti, la fonte del rapporto di lavoro sia quella contrattuale.

In realtà, l’adesione o meno alle teorie acontrattuali dipende dalla concezione di contratto che si assume, pur implicitamente, a fondamento della costruzione. Non si può fare a meno di osservare, infatti, che se da un lato i rapporti di lavoro sono regolati dal contratto collettivo nazionale è pur vero che, dall’altro, il contratto di lavoro individuale che il datore di lavoro stipula con il lavoratore, pur NON potendo disattendere il contenuto del contratto collettivo può arricchirne il contenuto! Può, in altre parole, disciplinare aspetti NON regolati dal contratto collettivo nazionale (ed in tal modo rendere palese l’aspetto di negoziazione tra le parti – lavoratore e datore di lavoro – tipico di qualunque contratto).

Per quanto riguarda la disciplina civilistica del contratto, ha scarsa rilevanza, in particolare, l’applicazione delle norme relative ai vizi del consenso ed alla simulazione. Per quanto riguarda la simulazione, in particolare, questa viene risolta in sede giudiziale nel seguente modo: una volta che il giudice abbia accertato che il rapporto di lavoro oggetto della domanda è subordinato/autonomo (pià spesso sono i rapporti di lavoro subordinato ad apparire come lavoro autonomo), imporrà al datore di lavoro di applicare la relativa normativa (non entrando quindi in gioco l’istituto civilistico della simulazione relativa).

Per quanto riguarda i vizi del consenso (come l’errore), invece, non può dirsi a priori che la normativa di riferimento non sia applicabile. Ad es, proprio in riferimento all’errore, è astrattamente possibile che il datore di lavoro abbia assunto un soggetto (es cassiere) che poi si scopra aver commesso, in passato, delitti contro il patrimonio e, per tale ragione, il datore di lavoro potrebbe aver interesse a chiedere l’annullamento del contratto in quanto è caduto in errore (ignorando i reati contro il patrimonio precedentemente commessi dal lavoratore ed essendo, quindi, tale tipo di errore rilevante per il datore di lavoro – siccome la mansione che il lavoratore ha come cassiere potrebbe comportare dei rischi per il datore di lavoro). Tuttavia, anche in casi (di scuola) come questi, il datore di lavoro potrebbe preferire (e di fatto preferisce) avvalersi della facoltà di licenziare il lavoratore (durante il periodo di prova). Grazie alla clausola corrispondente al patto di prova e recesso senza necessità di motivazione che viene spesso inserita nei contratti aventi ad oggetto un rapporto di lavoro subordinato, infatti, il datore di lavoro (per il periodo di tempo corrispondente a quello di prova) può valutare il lavoratore ed eventualmente licenziarlo senza necessità di motivazione.

La concezione acontrattuale del rapporto di lavoro ha contrasta, poi, con molteplici indici normativi. Prima fra tutte la legislazione in materia di licenziamenti, che affermando l’obbligo del lavoratore di adempiere agli obblighi contrattuali e, conseguentemente, il diritto del datore di lavoro di licenziare il lavoratore a fronte di un notevole inadempimento degli stessi, rende chiara la natura contrattuale del rapporto.

La natura contrattuale del rapporto di lavoro si evince, altresì, dalla concezione del rapporto di lavoro subordinato presente anche tra privato e pubblica amministrazione. È stata superata, infatti, la precedente concezione secondo la quale colui il quale lavorava per una PA avesse da essa ottenuto il posto di lavoro a seguito di una manifestazione di volontà unilaterale dell’ente pubblico. Oggi, infatti, il lavoratore stipula con la PA un vero e proprio contratto individuale di lavoro (art 35 c.1 dlgs 30 marzo 2001, n. 165).

la qualificazione contrattuale del rapporto di lavoro si evince anche dando uno sguardo ad ipotesi particolari come quella del rapporto di lavoro instaurato con un soggetto protetto: anche in tali casi, infatti, un margine di manifestazione di volontà delle parti è comunque presente.

 

..che cos’è la prestazione lavorativa di fatto?

l’art 2126 cc dice che “la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione”

..e se la prestazione del lavoratore è stata da lui effettuata con l’inconsapevolezza del datore di lavoro, o peggio, in netto contrasto con un divieto da lui imposto? Quando si applica l’art 2126 cc e quando no?

Intanto cominciamo con il dire che le ipotesi di prestazione lavorativa di fatto sono quelle (come già accennato) in cui il lavoratore ha effettuato la propria prestazione lavorativa nell’inconsapevolezza del datore di lavoro o, ancor peggio, contro un suo espresso divieto. In tale ipotesi il datore di lavoro ha certamente il diritto di andare in giudizio, MA! Dovrà lui stesso provare che il lavoratore ha effettuato la prestazione con l’inconsapevolezza del datore di lavoro, o peggio, in netto contrasto con un divieto da lui imposto. Se non riuscirà a provarlo, infatti, il giudice potrà facilmente rigettare la domanda in quanto, in via presuntiva, ricollegherà la prestazione del lavoratore ad un tacito accordo esistente tra lavoratore e datore di lavoro.

In ogni caso, l’art 2126 comporta una deroga alla disciplina civilistica riguardante gli effetti di una dichiarazione di nullità o di accertamento della nullità di un contratto. Infatti, la disciplina generale civilistica prevede che entrambe queste pronunce abbiano effetto retroattivo. La norma in questione, invece, IMPEDISCE tale effetto reatroattivo. Lo impedisce a tutela del lavoratore (in quanto, in tale ipotesi, l’oggetto del contratto – la prestazione lavorativa – non è ripetibile).

Tuttavia, l’art 2126 cc NON si applica in caso di causa o oggetto illecito del contratto (situazione, peraltro, non ipotizzabile in relazione ad un contratto nominato – per il quale, quindi, la disciplina sia già prevista dalla legge e di conseguenza anche il giudizio di liceità in merito all’oggetto e alla causa è già stato operato a monte dal legislatore).

La norma, invece, SI applica in tutti gli altri casi! Ad esempio quando il contratto di lavoro abbia violato norme imperative (es il lavoratore NON era in possesso dei requisiti richiesti dalla legge per esercitare una determinata attività – es iscrizione ad un albo).

..e per quanto riguarda la capacità giuridica e capacità di agire?

l’età minima per la valida stipulazione di un contratto avente ad oggetto una prestazione lavorativa è 16 anni.

Per quanto riguarda la capacità giuridica, invece, il discorso è più articolato. O meglio: il nostro codice civile – per quanto attiene alla capacità giuridica di essere titolari di diritti e di doveri nell’ambito di un rapporto lavorativo – prevede una c.d. Capacità giuridica speciale riconosciuta ai soggetti che abbiano compiuto 16 anni.

Nella sua versione originaria, tuttavia, non era così. Prima della L. 8 marzo 1975 n. 39, la maggiore età si raggiungeva a 21 anni (non quindi a 18) e la “minore età” alla quale era consentito lavorare corrispondeva al compimento dei 18 anni (salvo quanto era previsto da eventuali leggi speciali che stabilissero un’età inferiore. Ciò significava che, a quel tempo, una persona che avesse compiuto i 18 anni poteva lavorare ma NON aveva capacità di agire (ossia di provvedere autonomamente ai propri interessi e, più nello specifico, non aveva quindi potere contrattuale. Risultato? Il contratto doveva essere firmato dai genitori o da un tutore)

Oggi, a seguito della L. 8 marzo 1975 n. 39, sono cambiate diverse cose. Innanzitutto, la maggiore età si raggiunge ai 18 anni (e non più a 21); inoltre, la minore età necessaria ai fini di poter instaurare un rapporto lavorativo e quella degli anni 16 e, in più, in tale ipotesi il minore possiede sia capacità giuridica sia capacità di agire (o meglio, queste due capacità è come se fossero “fuse”) in quanto l’art 2 cc dice espressamente che “il minore è abilitato all’esercizio dei diritti e delle azioni derivanti dal contratto di lavoro”. Di conseguenza non è più necessario l’intervento dei genitori/tutori.

Il pubblico impiego ,come requisito di età minima, ha mantenuto, tuttavia, il limite dei 18 anni per la valida stipulazione di un contratto di lavoro ed il massimo di 40 anni.

…e per quanto riguarda la forma del contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato?

parlando della forma del contratto di lavoro è innanzitutto doveroso dire che, in materia, vige il principio della libertà di forma

sono, tuttavia, presenti delle eccezioni in presenza delle quali la legge stessa ha stabilito l’obbligo della forma scritta (contratto di apprendistato; contratto a tempo determinato; contratto a tempo parziale e di lavoro intermittente).

Ciò che, in ogni caso, è richiesto dalla legge (a prescindere dall’utilizzo della forma scritta) è l‘obbligo di informare il lavoratore su una serie di questioni. O meglio. Relativamente a determinati elementi del rapporto (identitò delle parti, luogo di lavoro, data di inizio del rapporto, durata, inquadramento, importo e periodicità di versamento della retribuzione, ferie, orario di lavoro, termini di preavviso in caso di licenziamento. Questo obbligo, che grava su ogni datore di lavoro, è imposto dal dlgs 152/1997 e deve essere adempiuto all’atto di assunzione, prima dell’inizio dell’attività di lavoro.

La maggior parte dei contratti collettivi prevedono cmq la stipulazione per iscritto del contratto di lavoro o, almeno, l’informazione scritta, al lavoratore, in relazione agli elementi del rapporto citati poc’anzi.

…e per quanto riguarda il patto di prova?

il patto di prova è disciplinato dal cc all’art 2906.

prova e termine possono essere paragonati ad elementi accidentali del contratto di lavoro subordinato.

In ogni caso, il patto di prova corrisponde ad un interesse di entrambe le parti del rapporto.

In altre parole, la prova dell’idoneità del lavoratore ha una valenza bidirezionale, nel senso che tanto il datore di lavoro quanto il lavoratore (soprattutto se altamente qualificato) possono aver interesse ad effettuare tale prova al fine di verificare l’idoneità del lavoratore (nel caso del datore di lavoro) e le caratteristiche del lavoro che dovrà essere svolto (da parte del lavoratore).

Per il patto di prova è richiesta ad substantiam (quindi per la sua validità) la stipulazione in forma scritta. In mancanza il patto di prova va considerato nullo (ferma restando, ovviamente, la validità del contratto di lavoro). È poi, altresì, necessaria la sottoscrizione delle parti ed il patto deve essere stipulato in un momento anteriore o, al più, coevo alla costituzione del rapporto.

Riguardo alla durata un limite legale è rintracciabile nell’art 10 L 15 luglio 1996 n 604 per gli operai, impiegati e quadri. In base a questa legge, infatti, l’eventuale licenziamento di tali tipi di lavoratori deve cmq essere giustificato dal momento in cui l’assunzione sia divenuta definitiva e in ogni caso, quando siano decorsi sei mesi dall’inizio della prova (da ciò si deduce, quindi, che il termine di 6 mesi corrisponde al termine ultimo per considerare “in prova” il lavoratore).

La disciplina codicistica del patto di prova è stata innovata dalla giurisprudenza, in particolare da quella costituzionale con la sent. 189/1980. questa sentenza ha inciso profondamente su due aspetti molto importanti:

1)il trattamento da riconoscere al lavoratore in prova

2)la sindacabilità o meno del licenziamento intimato dal datore di lavoro al lavoratore durante il periodo di prova.

Con riguardo al punto (1), la corte cost ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del c.3 dell’art 2096 nella parte in cui, consentendo il diritto di recesso (in capo al datore di lavoro) durante il periodo di prova senza obbligo di intennità, di fatto consentiva di escludere il diritto del lavoratore all’indennità di anzianità (oggi TFR – trattamento di fine rapporto). La corte ha invece affermato che, oltre al TFR, dovesse essere riconosciuto al lavoratore anche un periodo di ferie retribuite o, in sostituzione, la corrispondente indennità sostitutiva.

Con riguardo al punto (2) questo può essere esercitato SOLO TENDENZIALMENTE in via discrezionale. In che senso? Nel senso che, fermo restando il diritto del datore di lavoro di intimare al lavoratore il licenziamento durante il periodo di prova, il lavoratore avrà diritto di sottoporre al vaglio del giudice tale licenziamento. Il giudice, infatti, potrà sindacare la legittimità dello stesso (ad es verificando che il motivo dello stesso non sia illecito). In tali casi, tuttavia, l’onere della prova spetta al lavoratore, anche se il giudice ha la possibilità di far leva su elementi presuntivi desumibili dalla breve durata della prova rispetto a quella concordata; del positivo superamento della stessa; dell’adibizione del lavoratore a mansioni diverse rispetto a quelle d’assunzione, ecc.

l’art 2096 c.4, inoltre, stabilisce a chiare lettere che “compiuto il periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva ed il servizio prestato si computa nell’anzianità del prestatore di lavoro.

E nel contratto di lavoro stipulato con un invalido? È lecito prevedere un patto di prova? Si, a condizione che la valutazione dell’esito della stesa non sia assolutamente influenzata da considerazioni di minor rendimento dovute all’infermità o alle minorazioni del lavoratore.

…e per quanto riguarda il divieto di indagini sulle opinioni e divieto di discriminazioni?

l’art 8 dello Statuto dei lavoratori tutela l’interesse del lavoratore a mantenere intatta quella sfera di riservatezza all’interno della quale si colloca la sua vita privata. Per tale motivo è VIETATO al datore di lavoro di effettuare, ai fini dell’assunzione, indagini anche a mezzo di terzi sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore.

È consentito, infatti, soltanto effettuare indagini rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale

il punto critico della normativa, tuttavia, è proprio questo: cosa si intende con tale frase? La risposta è “dipende da caso a caso”

es così come è legittimo verificare le tendenze politiche di un soggetto che intenda diventare funzionario di un partico politico, oppure verificare le credenze religiose di un soggetto che intenda insegnare in una scuola privata; NON sarebbe legittimo (da parte degli stessi lavoratori di tali istituzioni) effettuare la stessa indagine al fine di assumere un addetto alle pulizie (in quanto, tale mansione, non necessita di essere coerente con le tendenze politiche del partito o con le credenze religiose di un istituto scolastico.

Per quanto riguarda, poi, le indagini in merito allo stato di salute del lavoratore, queste sono possibili SOLO SE vi è il rischio di contagio per i terzi (es l’accertamento di assenza di tossicodipendenza).

Per quanto riguarda l’accertamento di uno stato di sieropositività questi sono generalmente vietati dalla legge 135/1990…MA! La corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale nella parte in cui questa legge non fa salva l’ipotesi in cui il soggetto candidato per un lavoro debba, in ossequio al lavoro stesso, espletare attività che comportino rischi per la salute di terzi. In tali casi, infatti, un accertamento relativo a scoprire la presenza/assenza di uno stato di sieropositività è legittimo.

Sono altresì vietati atti discriminatori.

 

TIPOLOGIA DEI RAPPORTI DI LAVORO SUBORDINATO:

il modello contrattuale “standard” di lavoro subordinato è quello a tempo indeterminato. Nel corso degli anni, tuttavia, sempre più spesso, diverse tipologie contrattuali hanno preso il suo posto: è il caso del c.d. Lavoro atipico

l’espressione lavoro atipico, in realtà, non ha carattere tecnico giuridico. Così come non è idoneo, anzi, è inadeguato e fuorviante il ricorso al concetto di flessibilità per “classificare in qualche modo” un tipo ti lavoro come lavoro atipico. Questo perché, con riguardo al concetto di flessibilità, bisogna distinguere tra una vera espressione ti tale concetto (riscontrabile nei rapporti di lavoro a tempo intederminato e parziali) da una “storpiatura” di esso (riscontrabile nei rapporti di lavoro a tempo determinato).

Nel mercato italiano, in particolare, a differenza di quanto è avvenuto in altri paesi, il ricorso al contratto a tempo determinato ha superato di gran lunga il ricorso a quello a tempo parziale determinando, in poche parole, una vera e propria erosione del modello standard di lavoro subordinato (coincidente, come detto prima, con il lavoro subordinato a tempo indeterminato).

A dire il vero, a livello europeo si è cercato (fin dagli anni 90) di regolamentare le diverse forme di lavoro atipico (lavoro a tempo parziale, determinato, telelavoro e lavoro tramite agenzia interinale). La regolamentazione, infatti, è avvenuta mediante accordi quadro e/o direttive.

Per quanto riguarda il lavoro a tempo parziale questo, a livello europeo, è stato regolato dalla direttiva n. 81 del 1997. gli obiettivi di tale direttiva sono stati quelli di vietare ogni tipo di discriminazione tra lavoratori a tempo determinato e a tempo indetererminato (beninteso, esercitanti le stesse mansioni in modo da poter essere considerati “comparabili”). È da sottolineare, tuttavia, come nella maggior parte dei casi i contratti di lavoro a tempo parziale sono stipulati con donne lavoratrici (piuttosto che con uomini) al fine di permettere loro di coadiuvare meglio la vita lavorativa con quella familiare.

Per quanto  riguarda il lavoro a tempo determinato , a livello europeo questo è stato regolato dalla direttiva n. 70/1999.

i principi fondamentali in materia sono: la lotta agli abusi nel ricorso a tale tipologia contrattuale; la parità di trattamento dei lavoratori a termine rispetto ai lavoratori comparabili a tempo indeterminato).

Per quanto riguarda il telelavoro il 16 luglio 2002 è stato sipulato un accordo quadro al fine di stabilire una disciplina generale delle regole in materia.

Per quanto riguarda, infine, il lavoro tramite agenzia interinale (disciplinato dalla direttiva n. 104/2008) le finalità sono: la tutela dei lavoratori, il miglioramento della qualità del lavoro ed il divieto di discriminazioni.

Comune a tutti questi modelli contrattuali è l’inserimento della clausola di non regresso in forza della quale è fatto divieto agli stati di adottare la disciplina contenuta nella direttiva se questa è meno favorevole rispetto alla propria legislazione interna.

In realtà, in italia, a partire dalla L. 92/2012 ha preso piede una legislazione volta, tra le altre cose, a NON rispettare tale clausola di non regresso andando, anzi, ad introdurre PARZIALMENTE, o meglio con dei correttivi (nell’ordinamento giuridico interno) la tutela prevista in sede europea, con il risultato (a causa di questa introduzione parziale) di erodere sempre di più il modello standard di contratto di lavoro subordinato (quello a tempo indeterminato) che ha visto, al suo posto, sempre più spesso prendere piede il contratto a tempo determinato (con ovvie ripercussioni sui lavoratori).

(L’ARTICOLO È IN CONTINUO AGGIORNAMENTO! NEI PROSSIMI GIORNI PROSEGUIREMO IL DISCORSO A PARTIRE PROPRIO DA QUESTO PUNTO! 😉 )

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